Synopsis: La Traviata

von Giuseppe Verdi


ATTO PRIMO
Un’affiatata compagnia di gaudenti aristocratici e compiacenti damigelle si è riunita per trascorrere l’ennesima notte di piaceri, dove «L’amistà s’intreccia al diletto». Novizio, e un po’ disorientato fra tanto vortice di parole e di musica, è Alfredo Germont, fattosi introdurre dall’amico Gastone col deliberato proposito di conoscere personalmente la padrona di casa, oggetto di segreta passione. Violetta si fa celia di tante attenzioni, e per sdrammatizzare la scena propone un brindisi collettivo (“Libiam ne’ lieti calici”). La festa prosegue: nel salone contiguo si aprono le danze; gli invitati accorrono, ma un accesso di tosse frena l’uscita di Violetta, che si trattiene assistita da Alfredo. L’eco dei valzer giunge sino al proscenio, fungendo da sostegno sonoro alla conversazione appartata dei due: alle profferte amorose dell’uno (“Un dì, felice, eterea, / mi balenaste innante”) si mescolano le ricuse divertite dell’altra, che a un uomo non può promettere altro che amicizia (“Ah, se ciò è ver, fuggitemi... / solo amistade io v’offro”). Catturati nuovamente dal turbinio della festa, che sta per volgere al termine, i due si danno appuntamento per il giorno seguente. È ormai l’alba e Violetta, rimasta sola, medita turbata sull’effetto sortito in lei dalle parole di Alfredo: che sia forse giunto il giorno del suo primo vero amore, il momento di «essere amata amando»? (cantabile “Ah, fors’è lui che l’anima”) No di certo (tempo di mezzo “Follie... follie... delirio vano è questo”). Il destino di Violetta è ben altro: continuare nella sua condizione di gaudente indipendenza sociale (cabaletta “Sempre libera degg’io /folleggiare di gioia in gioia”).

ATTO SECONDO
Fra tali propositi era calato il sipario dell’atto primo; ma il riaprirsi della tela, su una casa di campagna presso Parigi, ci rivela contro ogni aspettativa un Alfredo perfettamente inserito in un tranquillo ménage di coppia con la donna (cantabile “De’ miei bollenti spiriti / il giovanile ardore / ella temprò col placido / sorriso dell’amore”). La serenità conquistata ha tuttavia vita breve. La servetta Annina, testé giunta da Parigi, rivela di esservi stata inviata dalla padrona – privata ormai delle munifiche elargizioni di tanti protettori – per alienare i beni restanti e finanziare così la nuova esistenza. Alfredo non ci sta: aperti finalmente gli occhi dopo tre mesi di estasi beata (“Dell’universo immemore / io vivo quasi in ciel”) corre egli stesso a Parigi, per cercare una soluzione adeguata (cabaletta “O mio rimorso, o infamia, / io vissi in tale errore”). Ignara di tutto, rientra Violetta; sorride di un invito che le giunge dai vecchi amici per la sera stessa: non è più vita per lei! Ed ecco piombare inatteso il padre d’Alfredo che, in un memorabile duetto con Violetta, chiede alla donna una netta recisione della convivenza peccaminosa: il futuro genero, già sul punto di sposare la sorella di Alfredo, venuto a conoscenza dell’onta che grava sulla famiglia Germont, minaccia l’abbandono della giovane (“Pura siccome un angelo / Iddio mi die’ una figlia”). Violetta, in una disperata requisitoria, oppone tutto il suo autentico e disinteressato amore per Alfredo a quello ipocrita dei matrimoni combinati fra l’alta società, ma il vecchio Germont è irremovibile nel suo cinismo: torni, finché è giovane, alla vita gaudente di prima; l’uomo è volubile e, quando la bellezza sarà svanita, anche Alfredo si rivolgerà altrove. Votata al martirio, la donna cede (“Dite alla giovine – sì bella e pura / ch’avvi una vittima – della sventura”). L’accordo è presto fatto. Inutile dire ad Alfredo che l’amore è finito: non lo crederà; sarà piuttosto Violetta a concertare la cosa, dietro la promessa che, quando il dolore avrà sopraffatto la sua ormai cagionevole salute, la verità venga rivelata all’amato (cabaletta “Morrò!... la mia memoria non fia ch’ei maledica”). Rimasta sola, Violetta si appresta a scrivere la lettera mendace per Alfredo; da questi inopinatamente sorpresa, scoppia in un’eccitazione crescente, che culmina nella più straziante richiesta d’amore della storia dell’opera (“Amami Alfredo, amami quant’io t’amo”). Violetta fugge verso Parigi; la lettera viene recapitata all’amato pochi minuti dopo: questi l’apre, la legge e cade disperato fra le braccia del padre, rimasto opportunamente in agguato per cogliere l’attimo più propizio alla riconquista del figlio. La paternale è immediata (“Di Provenza il mar, il suol – chi dal cor ti cancellò?”); Alfredo si stacca adirato dall’abbraccio paterno, tutto intento a scoprire chi possa essere la causa dell’improvviso voltafaccia di Violetta (forse il barone Douphol?), mentre il padre torna all’attacco sul suo fronte moralistico (cabaletta “No, non udrai rimproveri”), senza riuscire più a catturare l’attenzione di Alfredo. È invece un foglio abbandonato sul tavolo a colpirlo: l’invito per la sera stessa al solito festino gaudente; è lì che l’offesa verrà vendicata. Repentino il cambio di scena, ed eccoci al centro di un ballo mascherato: zingarelle e toreri invadono il salone coi loro canti festosi (“Noi siamo zingarelle”; “Di Madrid noi siam mattadori”). A poche ore dal fatto, la notizia della separazione fra i due amanti circola già in società, e l’ingresso disinvolto di Alfredo alla festa in cui la donna apparirà a braccetto del nuovo amante viene salutato con approvazione. Ecco infatti giungere Violetta, accompagnata dal barone Douphol. Alfredo sbanca tutti al tavolo da gioco: anche il rivale, in una sfida a carte che assume inevitabilmente connotazioni ben più personali. La tensione viene tempestivamente interrotta dall’invito alla cena: i convitati si allontanano, tranne Violetta, che in un disperato quanto fallimentare tentativo di evitare il peggio ha fatto chiamare a sé proprio Alfredo. Il dialogo è impossibile: lei si vede costretta ad ammettere di amare Douphol, pur di non svelare il vero, e lui, chiamati i presenti a raccolta, con ira crescente ne denuncia pubblicamente la condotta, gettandole ai piedi una borsa di danaro in segno di pagamento per il periodo trascorso insieme. La situazione precipita nel concertato finale, aperto dall’ingresso inatteso di Germont padre che, invece di giustificare il comportamento della donna svelando la verità, continua le sue querimonie contro il comportamento indecoroso del figlio (Largo concertato “Di sprezzo degno se stesso rende / chi pur nell’ira la donna offende”), cui si accodano le espressioni di rimorso di Alfredo, le dolenti rimostranze di Violetta, i moti compassionevoli di tutti gli astanti.

ATTO TERZO
Ed eccoci alla conclusione del flashback , come ci ricorda il preludio che si apre con le identiche note dell’inizio, ma senza più deviare verso i toni della passione e della frivolezza: il presente è solo dolore – fisico, oltre che morale e affettivo, in quanto la tisi ha ormai condotto l’eroina sul letto di morte. Al capezzale l’assistono ancora la fedele Annina e le cure pietose del medico, già testimone di tutti i precedenti eventi. La sofferenza e l’indigenza di Violetta contrastano con l’opulenza del carnevale parigino, che fa giungere dalla strada i suoi canti festosi. Unica consolazione in tanta solitudine è una lettera che la donna ha ricevuto da Giorgio Germont: l’informa del duello, in cui il barone è rimasto ferito, e della partenza di Alfredo dalla Francia; ragguagliato finalmente dal padre sulla verità degli eventi, sta ora facendo rapido ritorno per farsi perdonare dall’amata. Purtroppo è ormai tardi: Violetta rilegge lo scritto per l’ennesima volta, e ancor non giunge alcuno, mentre le forze la abbandonano giorno dopo giorno (romanza “Addio del passato bei sogni ridenti”). Ma ecco Annina entrare tutta eccitata nella stanza: Alfredo è arrivato, e corre fra le braccia di Violetta per l’immancabile duetto. Alla rappacificazione immediata (tempo d’attacco “Colpevol sono...so tutto, o cara”), seguono i più ottimistici progetti per il futuro (cantabile “Parigi, o cara, noi lasceremo”); Violetta vorrebbe uscire (tempo di mezzo), correre in chiesa per ringraziare Iddio della nuova gioia, ma le forze non la reggono più: si chiami pure il medico, ma se non riesce a salvarla il tanto sospirato ritorno di Alfredo, nessun altro lo potrà in terra (cabaletta “Gran Dio, morir sì giovane”). Anche Giorgio Germont sopraggiunge per l’ultimo conforto: le voci si uniscono nel concertato finale avviato dalla protagonista (Largo “Prendi; quest’è l’immagine / De’ miei passati giorni”), cui seguono i soli pochi istanti di apparente vigore che sogliono cogliere i malati di tisi, prima del crollo definitivo. Vana illusione: Violetta cade esanime.