ATTO PRIMO
In una bottega di caffè, a Napoli, siedono due ufficiali e un vecchio filosofo, Don Alfonso. «La mia Dorabella/ capace non è» di essere infedele, esclama Ferrando, come a proseguire un discorso già iniziato; e con lui Guglielmo, l’altro ufficiale: «la mia Fiordiligi/ tradirmi non sa». Don Alfonso, che ha provocato la disputa sostenendo il contrario, cerca di farsi indietro, ma i due intendono sfidarlo a duello, per difendere l’onore delle future spose. Tre brevi terzetti ritmano la scena, fra di essi incalza il recitativo semplice. «È la fede delle femmine/ come l’araba fenice:/ che vi sia, ciascun lo dice;/ dove sia, nessun lo sa»: così inizia il secondo terzetto, e a parlare è naturalmente Don Alfonso, che calma i bollori dei giovani citando la quartina di Metastasio (il quale, meno maschilista, diceva «la fede degli amanti»), accolta nella tradizione comica attraverso Goldoni ( La scuola moderna I,8). Il filosofo scommette cento zecchini, per provare ai due amici che le fidanzate non sono diverse dalle altre donne; per un giorno, Ferrando e Guglielmo dovranno attenersi ai suoi ordini. «E de’ cento zecchini, che faremo?» si chiede Guglielmo, sicuro di vincere. «Una bella serenata/ far io voglio alla mia dea», canta a melodia spiegata Ferrando, avviando l’ultimo terzetto del prologo. Nel giardino della casa sul golfo, le sorelle Fiordiligi e Dorabella contemplano sognanti i ritratti dei fidanzati e intrecciano il primo dei loro duetti (“Ah guarda sorella”). A un languido Andante segue un Allegro in cui clarinetti e fagotti si alternano o raddoppiano le voci, le quali procedono spesso per terze e seste parallele o ad imitazione incrociata (una voce fissa su una nota e l’altra che arpeggia, e viceversa): sono stilemi ricorrenti nella partitura; anche nei concertati le sorelle canteranno così, inseparabili. Don Alfonso reca una notizia terribile, ma prima crea il panico cantando un frammento di aria concisa e agitata, poche battute ansimanti: il suo unico numero da solista (“Vorrei dir, e cor non ho”). Spiega che i fidanzati sono richiamati al fronte e devono partire all’istante. Arrivano Ferrando e Guglielmo, compunti e tristissimi: disperazione delle sorelle (quintetto “Sento, o Dio, che questo piede”), confortate dagli amanti (duettino “Al fato dàn legge”), coro di soldati che annuncia il passaggio della barca del reggimento (“Bella vita militar!”), promessa di scriversi spesso (altro quintetto). All’inizio dell’ultimo numero (“Di scrivermi ogni giorno”) le voci entrano una per volta, sillabando; ogni nota è seguita da una pausa, secondo una direzione precisa, dalla prima voce (Fiordiligi) all’ultima (Don Alfonso): la prima rimane inchiodata sulla stessa nota, anche gli altri non riescono ad articolare un’intera frase; solo Don Alfonso ripete fra sé, cadenzando compiutamente, «Io crepo, se non rido!». Poi una lunga, commossa melodia passa fra le varie voci, mentre in orchestra spiccano le viole ad avvolgere e unificare la compagine vocale e strumentale. I soldati si allontanano e «le amanti restano immobili sulla sponda del mare». “Soave sia il vento”, si augurano nel terzetto seguente: i violini creano un tessuto di semicrome, su cui si distende la melodia; nella prima parte le voci procedono omoritmicamente, unite come in un corale, poi si sciolgono indipendenti in alcune battute polifoniche e, nella coda, si fermano per due volte su un accordo interrogativo, amplificato dai fiati, che getta un’ombra sulla leggerezza sognante di quanto si è ascoltato. Don Alfonso si compiace per aver recitato bene; le frasi che i soldati scambiavano a mezza voce con l’amico ci avevano insospettito, ma adesso siamo sicuri: la partenza è una farsa. Non conosciamo ancora il piano di Don Alfonso, che declama una terzina ripresa da Sannazaro: «Nel mare solca e nell’arena semina/ e il vago vento spera in rete accogliere/ chi fonda sue speranze in cor di femina». Alla presenza della cameriera Despina, Dorabella intona un recitativo da opera seria, seguito da un’aria drammatica e concitata, “Smanie implacabili”, con accompagnamento spiritato di violini e fiati (fagotti, corni, clarinetti) a note tenute, come nelle opere serie quando si parla di aldilà (e infatti sono citate le Eumenidi, nel testo ricco di versi sdruccioli tradizionalmente ‘infernali’). Informata dell’accaduto, Despina espone le proprie idee circa la fedeltà maschile ed esorta Fiordiligi e Dorabella a «far all’amor come assassine»: i fidanzati al fronte faranno altrettanto (aria “In uomini, in soldati”). Don Alfonso cerca l’aiuto di Despina, promettendole venti scudi se insieme riusciranno a far entrare nelle grazie delle sorelle due nuovi pretendenti. Travestiti da ufficiali albanesi, si avanzano Ferrando e Guglielmo, e Despina non li riconosce, ridendo poiché «hanno un muso fuor dell’uso,/ vero antidoto d’amor». Irrompono le padrone, furenti per la presenza degli sconosciuti; i finti albanesi si dichiarano spasimanti delle sorelle, che esplodono in una cascata di irati vocalizzi (sestetto “Alla bella Despinetta”). Don Alfonso presenta gli ufficiali come suoi cari amici; alle loro rinnovate e caricaturali offerte d’amore, Fiordiligi risponde – anche a nome della sorella – in un vigoroso recitativo: esse serberanno fedeltà agli amanti, fino alla morte. A questo punto è naturale che ella concluda la dichiarazione con un’aria seria, ‘di paragone’ (“Come scoglio immoto resta”), lunga e virtuosistica, nella quale la voce procede per grandi intervalli (alla fine della prima frase copre oltre due ottave di estensione, in due sole battute, sulle parole «e la tempesta»); dopo la frase in Andante maestoso, l’aria si compone di un Allegro e di una seconda sezione più mossa. Guglielmo replica con un’arietta buffa (“Non siate ritrosi”) in cui implora le sorelle, assicurando: «siam forti e ben fatti,/ siam due cari matti» e vantando sguaiatamente la propria virilità («e questi mustacchi/ chiamare si possono/ trionfi degli uomini,/ pennacchi d’amor»). Fiordiligi e Dorabella si ritirano senza parole; i due pretendenti scoppiano a ridere, mentre Don Alfonso li esorta a tacere, in un terzetto veloce e come in punta di piedi (“E voi ridete?”). Ferrando, innamorato dell’amore, invece di preoccuparsi come Guglielmo per aver saltato il pranzo, pensa che a fine giornata sarà nutrito dall’«aura» del suo tesoro: Mozart sorvola sul testo grottesco e disegna una melodia distesa, un momento di pausa nella spietata geometria drammaturgica dell’opera (“Un’aura amorosa”). In giardino, Fiordiligi e Dorabella intonano un duettino di sconforto (“Ah, che tutta in un momento”), ricamato spiritosamente dall’eco di flauti e fagotti: è l’introduzione al finale d’atto. Don Alfonso insegue gli albanesi, che fingono di bere un veleno e stramazzano al suolo; l’amico va in cerca di un medico e lascia i due agonizzanti davanti alle esterrefatte sorelle, che iniziano a provare compassione. Arriva Despina travestita da medico, declamando frasi in un latino strampalato, su un tempo di pomposo minuetto. «Ah, questo medico/ vale un Perù», esclamano le sorelle e Alfonso quando Despina fa rinvenire gli albanesi, toccandoli con una calamita. Ferrando e Guglielmo rinnovano le dichiarazioni e abbracciano le donne; in una lunga sezione (andante “Dove son? che loco è questo?”) il tempo drammatico si arresta, le frasi si ripetono sospese in un meccanismo ‘a pendolo’, fra i personaggi divisi a gruppi: le sorelle, gli amanti, Despina e Don Alfonso, che guidano il gioco ed esortano le donne ad assecondare i primi desideri dei resuscitati, i quali si comportano in modo molto passionale solo perché questi sono gli «effetti ancor del tosco». Quando i due pretendono un bacio, Fiordiligi e Dorabella si infiammano indignate e rifiutano, dichiarando: «Disperati, attossicati,/ ite al diavol quanti siete!».
ATTO SECONDO
Le ritroviamo meglio disposte nel secondo atto, quando nella loro camera vengono convinte da Despina (aria “Una donna a quindici anni”) e decidono di «divertirsi un poco, e non morire/ dalla malinconia», senza mancare di fede agli amanti, s’intende. Giocheranno, nessuno saprà niente, la gente penserà che gli albanesi che girano per casa siano spasimanti della cameriera. Resta solo da scegliere (duetto “Prenderò quel brunettino”): Dorabella, che decide per prima, vuole Guglielmo, e Fiordiligi apprezza il fatto che le spetti il biondo Ferrando. Nel giardino sul mare si ascolta musica di scena (all’aria aperta, quindi per soli fiati): i due albanesi offrono uno spettacolo alle dame, i suonatori e i cantanti arrivano in barca (duetto con coro “Secondate, aurette amiche”). Don Alfonso e Despina incoraggiano gli amanti e le donne a parlarsi e li lasciano soli (quartetto “La mano a me date”). «Oh, che bella giornata!», «Caldetta anziché no»...: la conversazione è impacciata. Poi Fiordiligi e Ferrando si allontanano, suscitando la gelosia di Guglielmo, che offre un regalo a Dorabella e riesce a conquistarla (duetto “Il core vi dono”). Fiordiligi è sconvolta, capisce che il gioco si è mutato in realtà. Quando Ferrando si accomiata (aria “Ah, lo veggio: quell’anima bella”) ella ha un attimo di debolezza e vorrebbe richiamarlo, poi intona un grande rondò (“Per pietà, ben mio, perdona”): ha conosciuto la passione, il suo amore non è più quello virtuoso che serbava al fidanzato ufficiale, è un nuovo sentimento: «è smania, affanno,/ rimorso, pentimento,/ leggerezza, perfidia e tradimento!»; spaventata, rivolge il pensiero al promesso sposo Guglielmo e si proclama a lui fedele. Questi è impacciato nel comunicare a Ferrando che Dorabella ha ceduto facilmente, ma è felice del fatto che Fiordiligi si sia dimostrata «la modestia in carne»; commentando l’infedeltà di Dorabella trova accenti (aria “Donne mie, la fate a tanti”) degni di Don Alfonso, o di Figaro nell’aria del quarto atto delle Nozze . Ferrando replica, in una breve cavatina (“Tradito, schernito”), di amare ancora l’infedele fidanzata. In casa, Dorabella esorta Fiordiligi a divertirsi; il tono scherzoso e lo stile disinvolto della sua aria (“È amore un ladroncello”) indicano che Dorabella parla il linguaggio di Despina, si è ‘abbassata’ alla sua morale. Fiordiligi decide di travestirsi da ufficiale e raggiungere il promesso sposo sul campo di battaglia: si fa portare delle vesti maschili, si guarda allo specchio, constata il fatto che cambiare abito significa perdere la propria identità; immagina di trovarsi già sul posto e che Guglielmo la riconosca (duetto “Tra gli amplessi in pochi istanti”), ma Ferrando la interrompe, minacciando di uccidersi. «Taci, ahimè! Son abbastanza/ tormentata ed infelice!» implora Fiordiligi, e Ferrando chiede la sua mano, rivolgendosi a lei con parole che probabilmente Guglielmo non le ha mai detto. «Crudel, hai vinto», mormora la donna; e aggiunge, su una frase dell’oboe: «fa’ di me quel che ti par». Guglielmo ha assistito al dialogo, è furente, e anche Ferrando odia la sua ex fidanzata, ma Don Alfonso, che ha dimostrato quanto voleva, li esorta a finire la commedia con doppie nozze: una donna vale l’altra, meglio tenersi queste «cornacchie spennacchiate»; in un’ottava egli spiega di non voler accusare le donne, anzi le scusa, è colpa della natura se «così fan tutte». Nella sala illuminata, con la tavola imbandita per gli sposi, Despina organizza i preparativi (finale “Fate presto, o cari amici”) e il coro di servi e suonatori inneggia alle nuove coppie. Al momento del brindisi Fiordiligi, Dorabella e Ferrando cantano un breve canone, su un tema affettuoso, da musica da camera, mentre Guglielmo si mostra incapace di unirsi a loro e commenta: «Ah, bevessero del tossico/ queste volpi senza onor!». Il notaio (Despina travestita) fa firmare il finto contratto nuziale; un coro interno intona “Bella vita militar!” e le sorelle rimangono impietrite: tornano i fidanzati. Nascosti gli albanesi in una stanza, esse si preparano ad accogliere Ferrando e Guglielmo, che fingono di insospettirsi quando scoprono il notaio e il contratto; poi si presentano vestiti da albanesi, ma senza cappello, senza mantelli e senza «mustacchi», in modo da essere riconosciuti. Don Alfonso si giustifica: ha agito a fin di bene, per rendere più saggi gli sposi. Le coppie si ricompongono (non si sa quali), tutti cantano la morale: «Fortunato l’uom che prende/ ogni cosa pel buon verso,/ e tra i casi e le vicende/ da ragion guidar si fa».